Paolo Gorini tra pietra e cenere nel bicentenario della nascita (1813-2013)

Sezioni della mostra

I. Album fotografico
Paolo Giuseppe Antonio Enrico Gorini nacque a Pavia, il 28 gennaio 1813. Figlio di Giovanni Gorini, docente universitario di matematica, e di Martina Pelloli, di origini lodigiane, lo scienziato, in prima persona, nella sua Autobiografia (Roma, 1881), racconta la sua infanzia e i suoi primi studi:

Fui dato alla luce nella casa Gallarati situata nella contrada del Gesù, quasi di fronte alla chiesa e facente angolo con la contrada di S. Agostino […]. Abbandonai la detta casa nel quinto anno di vita per trasferirmi colla famiglia nell’ex convento di S. Francesco di Pàola situato sulla piazza del collegio Ghislieri, ed ivi ebbi sempre il mio domicilio per tutto quel tempo che mi fu dato di rimanere nella mia città nativa. Passai tre anni della mia fanciullezza nel collegio di S. Salvatore fuori dalla porta che allora chiama vasi di Borgoratto. Ivi feci il corso dei primi tre anni di ginnasio dal novembre 1820 al settembre 1823. Poi, rientrato in famiglia, feci il quarto e il quinto anno di ginnasio presso le scuole pubbliche di Canepanuova. Dai passatempi cui allora mi abbandonava si sarebbe con facilità potuto prevedere qual sarebbe stato il gènere di occupazioni alle quali durante la mia vita mi sarèi di preferenza dedicato. Quanto approfittava poco dell’istruzione dàtami al Ginnasio tanto più faceva tesoro di quella impartìtami senza pedanteria e senza pregiudizii scolastici dal maestro privato Alessandro Scannini, quello stesso che morì vittima della brutalità austriaca, incolpato d’éssere stato uno dei promotori della sommossa avvenuta in milano il 6 febbraio 1853.

Sempre secondo Gorini, fu proprio il suo tutore a interessarlo fin dall’infanzia allo studio della geologia e della vulcanologia, che sarebbero state, oltre alla matematica (disciplina nella quale si laureò presso il Collegio Ghislieri di Pavia), le specializzazioni principali del prossimo scienziato, noto invece ai più per la famosa formula della pietrificazione e per le numerose tecniche di preparazione anatomica. A queste Gorini giunse non soltanto attraverso gli studi universitari (dato che il corso frequentato presso il collegio Ghislieri prevedeva, al III anno, alcuni elementi di medicina), ma, soprattutto, tramite lo studio della geologia (come avrebbe scritto nel 1851 e poi ancora nel 1871, nei monumentali Sull’origine delle montagne e dei vulcani e Sull’origine dei vulcani: studio sperimentale).
Rimasto orfano del padre nel 1825, completati gli studi grazie all’aiuto economico disinteressato di alcuni illustri colleghi del genitore perduto, fra i quali il prof. Alberto Gabba, che instrada il ragazzo al patriottismo contro la dominazione austriaca, Paolo Gorini giunse a Lodi nel 1834 per occupare la cattedra di Scienze naturali e Fisica del Liceo Comunale locale, dopo aver partecipato al concorso indetto dal Municipio nell’anno appena precedente. Non si hanno che scarse informazioni circa la docenza di Gorini, ma è noto che a partire dai primi anni Quaranta, pur continuando la propria attività scolastica, lo scienziato si dedicò con sempre maggiore assiduità ai suoi esperimenti in fatto di geologia, giungendo a costruire veri e propri vulcani artificiali per meglio illustrarne le dinamiche eruttive e dando il via, contemporaneamente, ai primi tentativi di conservazione «delle sostanze animali».
Le dimostrazioni pratiche di vulcanologia, attraverso i modelli artificiali negli anni Sessanta e Settanta del XIX secolo avrebbero visto Gorini protagonista presso alcune celebri accademie, come l’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, alla presenza di personaggi molto noti fra i quali Alessandro Manzoni. In un primo tempo, negli anni Quaranta e Cinquanta, le medesime esperienze vennero praticate privatamente nel laboratorio lodigiano di San Nicolò, a Lodi. Il laboratorio di Gorini era stato insediato, infatti, presso una chiesa sconsacrata e oggi non più esistente, S. Nicolò, appunto, che sorgeva presso via Serravalle, a fianco della Chiesa di San Francesco ancora oggi presente sulla Piazza dell’Ospitale.
Nello stesso periodo, non dedicandosi soltanto alle attività scientifica, ma anche a quelle di natura politica, in un’Italia in corsa per l’unificazione nazionale, Paolo Gorini entrava in contatto con i nomi più celebri di allora, sia dal punto di vista culturale, come nel caso di Carlo Cattaneo, sia dal punto di vista sociale e politico (Mazzini, Garibaldi, Maria Cristina Trivulzio di Belgiojoso…).
La celebre vis politica di Gorini, che addirittura lo portò a farsi promotore, presso il comitato segreto rivoluzionario costituitosi a Lodi nel 1848, di un innovativo piano di attacco contro gli Asburgo, è celebre. Vicino alle posizioni dei patrioti più radicali, Gorini non si sottrasse mai all’impegno politico e all’esternazione delle proprie idee, avvicinandosi, probabilmente, agli ambienti della Massoneria e frequentandone i protagonisti meglio noti.
Nel 1857, quando il Liceo Comunale di Lodi divenne Imperiale; Paolo Gorini, allora quarantatreenne, chiese e ottenne il pensionamento, cosa che gli permise di dedicarsi con ancora maggiori energie ai propri esperimenti. Questi lo avrebbero condotto, fra l’altro, non soltanto alla richiesta da parte del governo italiano, nel 1865, di redigere un accurato studio sulle caratteristiche dei vulcani in Italia e sulla loro eventuale pericolosità, ma anche, tramite canali diversi, al tentativo di conservazione delle spoglie di Giuseppe Mazzini, spirato nel 1872 a Pisa.
Oggi la salma di Mazzini riposa presso il cimitero genovese di Staglieno. L’ultima ricognizione del corpo, avvenuta nel 1946, ne testimoniava la sostanziale conservazione. Si deve soprattutto all’episodio legato al tentativo di conservazione delle spoglie di Mazzini la fama nazionale e internazionale di cui poté godere Paolo Gorini, a partire dagli anni Settanta del XIX secolo. Nonostante l’esperimento di mineralizzazione dei tessuti non sortisse risultati eccellenti sul corpo dell’esule (anche perché Gorini era giunto a Pisa due giorni dopo la morte dell’esule e lo stato del cadavere era irrimediabilmente compromesso), Agostino Bertani e Adriano Lemmi non persero comunque occasione per celebrare pubblicamente la tecnica gorininana, cercando così di sollevare le sorti economiche non particolarmente felici dell’amico scienziato.
Dopo avere conservato, questa volta con successo, la salma del romanziere Giuseppe Rovani, morto a Milano nel 1874, Paolo Gorini si dedicò al tema della cremazione incoraggiato dal medico Gaetano Pini. La cremazione, proprio come la preparazione anatomica, permetteva di salvare il corpo dalla corruzione. Dopo anni di studi e tentativi Gorini giunse alla progettazione e poco dopo alla costruzione di un forno crematorio molto innovativo e primo in Italia per efficienza e funzionalità. Edificato presso il cimitero di Riolo, il corpo dell’ormai anziano professore vi trovò la pace il 13 febbraio 1881.


II. Storia di una collezione
La Collezione anatomica Paolo Gorini raccoglie poco meno di duecento preparati a secco allestiti da Paolo Gorini tra il 1843 e la prima metà degli anni Settanta del XIX secolo. Il 9 febbraio 1881, una settimana dopo la morte di Gorini, avvenuta a Lodi, veniva nominato presidente di una commissione governativa il medico Malachia De Cristoforis, con il compito di effettuare un esame approfondito del lascito scientifico goriniano e di dare avvio, eventualmente, alle pratiche di acquisto di questo da parte dello Stato.
La proposta di acquisizione venne approvata dalla Camera, ma fu respinta successivamente, presso l’Ufficio centrale del Senato, a causa di una relazione pesantemente sfavorevole, firmata dal celebre fisiologo Jacob Moleschott. La relazione determinava l’abbandono del disegno di legge, che neppure fu presentato in aula. Gli eredi donarono così buona parte del lascito al Comune di Lodi.

Le prime testimonianze della volontà di raccogliere adeguatamente i preparati anatomici goriniani risale ai primi anni del Novecento, quando si cominciò a ritenere opportuno che i reperti venissero ospitati in locali idonei, come espressamente richiesto dal sindaco Emilio Caccialanza.
Definitivamente traslocati presso l’Ospedale nel 1910, soltanto nei primi anni Ottanta del Novecento i preparati anatomici di Gorini vennero raccolti, inventariati e descritti nel 1981 da Antonio Allegri, ex sindaco della città di Lodi e anatomopatologo. La cerimonia di inaugurazione si svolse, dunque, in occasione del centenario della morte dello scienziato lombardo, alla presenza dell’allora presidente del Consiglio dei Ministri, Giovanni Spadolini.
L’architetto Emilio Vignati, padre dell’allestimento voluto da Allegri, aveva disposto dieci larghe teche per il mantenimento dei preparati di più piccole dimensioni (teste, arti, busti…) e due teche ad hoc per ospitare le due salme intere presenti nel numero dei reperti. Se uno dei due corpi è anonimo, proprio come tutti gli altri preparati, è invece noto che l’altro, il primo cadavere intero preparato nel 1843 da un Gorini trentenne, appartiene a Pasquale Barbieri, un giovane lodigiano del quale lo stesso preparatore ha tramandato il nome nella propria Autobiografia. Proprio da questa importante pubblicazione romana del 1881 si evince che lo stesso Gorini, in punto di morte, redigendo uno dei suoi tre testamenti olografi, reputava necessaria la conservazione dei preparati.

Nelle distinzioni d’uso in merito al materiale che stava per lasciare, Gorini prevedeva l’esposizione al pubblico di alcuni soltanto fra i suoi preparati e scriveva che nel laboratorio in cui aveva da sempre operato, installato nella chiesa sconsacrata di S. Nicolò offertagli in uso dai lodigiani, vi erano, oltre a una moltitudine di esperimenti di conservazione falliti, alcuni preparati fra i quali era necessario distinguere quelli meglio riusciti e più curiosi (e qui lo scienziato ricordava non solo una testa umana preparata nel 1854, ma anche una tabacchiera in mammella vaccina), che andavano adeguatamente esposti al pubblico, e tutti gli altri, “che pur sarà bene il conservare perché ciascuno rappresenta uno studio”. Questi ultimi, secondo le volontà testamentarie di Gorini, non dovevano “essere esposti […], ma soltanto lasciati esaminare agli uomini della scienza», mentre altro materiale ancora andava evidentemente eliminato («un tal cumulo spaventoso di materie animali in disfacimento quale non si sarebbe mai creduto potere esistere. Pochi reggono all’orrendo spettacolo”), facendo naturalmente eccezione per “un coso verde tutto impolverato, infilzato in un’acuta bacchetta di ferro, che ad esaminarlo da vicino pare qualche cosa come un giovine conservato. E infatti questo è il famoso Pasquale, il primo morto che azzardai preparare per intero”.
Se l’intento ultimo di Gorini ben si adattava a specchiarsi nella letteratura coeva della Scapigliatura più radicale, con la quale lo scienziato condivise un sentire culturale comune sospeso fra Romanticismo e Positivismo, esso ne rispecchiava altrettanto le ossessioni mortuarie. Tuttavia, per ora, sarà immediatamente utile chiarire che al di là delle impressioni da feuilleton, l’opera anatomica attraverso la quale, a partire dal 1843 e per tutto il trentennio successivo, Gorini crea una raccolta di preparati umani e animali davvero imponente e qualitativamente molto particolare non si configurava allora (e non si configura nemmeno oggi, in termini storici) come una collezione macabra o inusuale. È anzi risaputo che la necessità di mantenere inalterati interi corpi o parti di essi, in assenza di frigoriferi, occupava all’epoca un certo numero di studiosi, fra medici e naturalisti, i nomi dei quali sono ancora oggi ben noti. Né si trattava soltanto di docenti universitari, come nel caso di Andrea Verga e, prima di lui, di Antonio Scarpa, di Bartolomeo Panizza o, più tardi, di Ugo Spirito, ma soprattutto di una ricca serie di studiosi indipendenti, fra i quali il farmacista Felice Ambrosioni, il medico Efisio Marini e, primus inter pares, nella prima metà dell’Ottocento, il cartografo e viaggiatore Girolamo Segato, padre della pietrificazione dei tessuti organici studiata e messa in atto anche dallo stesso Paolo Gorini e basata sulla sostituzione dei liquidi organici con sali minerali.


III. La pietrificazione
I numerosi tentativi di conservazione dei tessuti organici, ai quali Paolo Gorini attese dal 1843 fino alla metà degli anni Settanta del XIX secolo, non rappresentano il risultato di un’attività aliena dal contesto culturale delle scienze di allora. In assenza di frigoriferi e di altri mezzi idonei di conservazione, la questione della preparazione di interi cadaveri o di parti di essi era di primaria importanza. La natura dei preparati anatomici del XIX secolo contempla radici particolarmente profonde, e lo studio della sua storia e dei suoi artefici, fra i quali lo stesso Gorini, permette di individuarne i molti significati, anche didattici, che andavano dalla conservazione a scopo museale e illustrativo fino al loro uso diffuso addirittura nelle Accademie di Belle Arti, relativamente ai corsi di Anatomia artistica, o, per altre vie, alle necessità delle prime indagini giudiziarie moderne, che cominciavano ad avvalersi sempre maggiormente degli ausili della scienza medica.

Paolo Gorini mise a punto più metodi di preparazione anatomica e ne spiegò pubblicamente l’utilità in una nota relazione inviata all’Università degli Studi di Torino nel 1864. Tuttavia, Gorini non aveva nessuna intenzione di rivelare i propri segreti in fatto di soluzioni conservative e metodi applicativi, se non a fronte di un ritorno personale immediato. Gorini non ambiva soltanto a un riconoscimento di natura pecuniaria, ma ad un ruolo sociale e professionale diverso da quello ricoperto, che lo inscrivesse, magari, fra i nomi degli scienziati accademici, mettendolo così al riparo da eventuali furti, dei quali, qualora il suo metodo si fosse rivelato efficace, sarebbe stato facilmente vittima.
Forse anche per questo motivo Agostino Bertani e molti altri amici parlamentari dello studioso lombardo si prodigarono a lungo, nelle sedi adeguate, per l’istituzione di una cattedra universitaria di geologia sperimentale da affidargli. Tuttavia, i numerosi tentativi risultarono sempre inefficaci e, al di là di alcuni sporadici premi in denaro, lo scienziato non ottenne mai riconoscimenti sufficienti a fargli rivelare i propri segreti.

La pietrificazione, che rese celebre il segreto anatomico di Gorini attraverso una nota suggestiva, che sapeva di magia (e che invece era un fatto scientifico), consisteva nella mineralizzazione dei tessuti, che avveniva per sostituzione dei liquidi organici responsabili della decomposizione con sali che impedivano la decomposizione. “Pietrificatori” erano dunque chiamati quei preparatori anatomici che, fra Ottocento e Novecento, si avvalsero di sistemi simili, capaci di indurire i reperti organici fino a far loro ottenere consistenza lapidea o lignea.
Certamente, la segretezza ammantava di fascino immediato le operazioni di un Gorini e quelle dei molti altri che non rivelavano i loro trovati, rendendo così indispensabile la presenza dei loro stessi creatori qualora se ne richiedesse l’uso dei metodi e delle formule. Tuttavia, al di là di questo, le tecniche attraverso le quali molti preparatori di carattere professionale accademico, ospedaliero o indipendente preparavano corpi, organi e parti anatomiche, spesso patologici, per conservarne memoria, non erano altro che raffinate arti, esercitate con perizia e con metodi assolutamente riproducibili, verificabili e, quindi, scientifici.

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