Giuseppe Occhialini: dagli atomi alle stelle

Sezioni della mostra

I. Milano nello spazio. Le mostre parallele
Nell’autunno 2007 l’Università degli Studi della Bicocca e il Politecnico di Milano hanno dedicato alla conquista e all’esplorazione dello spazio due mostre legate al centenario della nascita di Giuseppe Occhialini e all’anniversario del lancio dello Sputnik, primo satellite artificiale messo in orbita attorno alla terra cinquanta anni fa.
La mostra Giuseppe Occhialini, dagli atomi alle stelle oltre a mettere in rilievo il percorso formativo, le tappe della ricerca e i risultati ottenuti dal grande scienziato, esponeva cimeli originali e mockups di satelliti e dei relativi rivelatori di raggi cosmici. Dalla fotografia di montagna in quota, ai palloni stratosferici, agli ultimi satelliti, la ricerca di Occhialini ha attraversato due continenti ponendo le basi per la conoscenza del nostro universo, ma anche della struttura costitutiva della materia.
Tecnologia e Scienza in orbita invece ha posto l’accento sul contributo scientifico che da molti decenni il Politecnico di Milano e le industrie dell’area milanese hanno dato, in termini di ideazione e di partecipazione a progetti di sviluppo tecnologico, per realizzare sistemi e strumenti in ambito spaziale. La mostra esponeva sonde, il prototipo di una tuta spaziale da astronauta, il Lander di Rosetta e vari satelliti, dal modello della sonda Giotto fino a quelli dei più recenti come Rubin 2 e Agile, realizzato per lo studio X dei raggi gamma.
Le esposizioni sono state realizzate dalle due università con il significativo contributo dell’Agenzia Spaziale Italiana, l’Istituto di Fisica Generale Applicata, sezione di Storia della fisica e di quattro importanti aziende che operano sul territorio; Carlo Gavazzi Aerospace, CESI, Galileo Avionica e Thales Alenia Space-Laben. La mostra del Politecnico è stata realizzata da Sara Calabrò sotto la direzione scientifica di Amalia Ercoli Finzi e di Cesare Cardani.


II. Album di famiglia
Giuseppe Occhialini nacque a Fossombrone, un villaggio delle Marche a una ventina di chilometri da Urbino, posto sulla strada che scende a Senigallia.
L’infanzia e la giovinezza non sono segnati da particolari eventi. La famiglia era benestante e il padre Raffaele Augusto, quando Giuseppe nacque (il 5 dicembre 1907), era fisico all’università di Pisa.
La madre Etra proveniva da una famiglia borghese più importante di quella del marito. Il matrimonio potè avvenire, nonostante la differenza di classe sociale, per l’appartenenza liberale e massonica che caratterizzava le due famiglie di provenienza.
La famiglia segue Raffaele Augusto prima a Pisa e poi a Firenze, dove Giuseppe completerà i suoi studi, orientandosi, nell’incertezza, a seguire le orme del padre nonostante avesse propensione anche per gli studi umanistici.


III. Arcetri
Conclusi gli studi liceali, Giuseppe sembra sulle prime indirizzarsi verso una facoltà umanistica. Non doveva però essere una pulsione troppo forte, perché infine decide di prendere la strada del padre, iscrivendosi alla facoltà di scienze e in particolare al corso di fisica.
Sarà una scelta indovinata, non solo per i successi futuri, ma anche per l’ambiente nel quale si ritroverà felicemente.
L’Istituto di Arcetri, con la sua tradizione, viene ricordato con nostalgia.
Istintivamente portato alla collaborazione, Giuseppe troverà amici e compagni capaci e inoltre “la vista offerta dalle finestre faceva perdonare la scarsa attrezzatura, la mancanza di funzionalità della sua struttura conventuale e le difficoltà di accesso’.
L’istituto, diretto allora da Antonio Garbasso, ottimo coltivatore di talenti giovanili, si concentrava su ricerche a quel tempo poco costose e in particolare sulla natura dei raggi cosmici.
Occhialini rimarrà nel gruppo di Arcetri dal 1927 al 1931, prima come studente e poi come ricercatore.


IV. La camera a nebbia
Ma per fare ricerca ad alto livello occorre respirare l’aria dell’internazionalità. Bruno Rossi aveva conosciuto all’inizio degli anni trenta Patrick Blackett del Cavendish Laboratory di Cambridge, che lavorava con la camera a nebbia di Wilson.
Con una borsa di studio del CNR Giuseppe Occhialini poteva così partire per Cambridge ed entrare in uno dei templi della fisica mondiale.
Lo stanziamento prevedeva che la sua presenza in Inghilterra dovesse durare tre mesi, necessari per imparare la tecnica della camera a nebbia, e poi tornare ad Arcetri. Vi rimase tre anni.
Il contributo che Occhialini portò alle ricerche in corso fu molto importante. La scuola fiorentina, priva di mezzi, aveva lavorato soprattutto con l’elettronica: l’uso dei tubi Geiger-Muller e i circuiti di coincidenza di Bruno Rossi. Occhialini, per parte sua, ci metteva capacità pratica e rigore sperimentale. Da questa collaborazione nacque la “camera a nebbia controllata”, capace non solo di mostrare le tracce effimere delle particelle, ma di stabilirne con precisione la natura energetica.
Grazie a questa innovazione, fu possibile confermare la teoria di Dirac sull’esistenza del positrone (elettrone positivo), già sospettato dall’americano Charles David Anderson nel 1932.


V. Esilio
Al suo rientro a Firenze nel 1934 molte cose erano cambiate. I professori universitari avevano dovuto sottoscrivere il giuramento fascista; Garbasso era morto, molti se ne erano andati, come Rossi, trasferito a Padova (ma presto si sarebbe dovuto trasferire negli Stati Uniti a causa delle leggi razziali). Occhialini perciò non resistette molto e approfittò dell’accordo stipulato dall’Italia con il governatore dello stato brasiliano di San Paolo: partì così per il Sudamerica, dove avrebbe lavorato per alcuni anni presso l’Istituto di Fisica della Facoltà di Scienze.
Il laboratorio era modesto – egli dice nelle note biografiche – ma popolato da un gruppo di giovani allievi di Wataghin tra cui De Sousa Santos, Schömberg, Pompeia, de Moraes e in un secondo tempo Camerini e Lattes. Ciò che si preparava era un’esperienza per l’osservazione di grandi sciami di raggi cosmici con camere di Wilson e contatori, che fu interrotta dalla guerra.
Quando nel 1942 il Brasile si schierò contro la Germania e l’Italia, per il timore di rappresaglie sui familiari rimasti in Italia Occhialini dovette “sparire” ritirandosi in isolamento nel gruppo di montagne di Itatiaia, tra San Paolo e Rio. Viveva in una capanna e, essendo un appassionato di alpinismo, si mantenne facendo la guida alle scalate. “Pico Occhialini” è chiamata una delle cime delle montagne di quei luoghi, né si è del tutto persa la memoria di “Oquialine” tra le guide e la gente del posto.
Con l’armistizio venne la possibilità di uscire dall’eremitaggio. Aveva il desiderio di schiararsi con le forze alleate lavorando in qualche gruppo di ricerca legato al conflitto. Naturalmente, in quanto italiano questo non era possibile. Fu Blackett che, comunque, nel 1944, lo indirizzò al H. H. Wills Laboratory di Bristol, dove venivano svolte attività che coincidevano con i suoi interessi.
Così Occhialini tornò al lavoro con un nuovo compagno, Cecil Frank Powell.


VI. A caccia del mesone π, o pione
L’armistizio dell’8 settembre 1943 per Occhialini significò la possibilità di rientrare nella ricerca. I suoi tentativi di schierarsi con gli alleati, come ad altri suoi colleghi era accaduto – Bruno Rossi, ad esempio, sia pure con grande perplessità aveva accettato l’invito di Fermi a partecipare al progetto Manhattan – venivano però frustrati dall’impedimento che aveva avuto nello schierarsi apertamente contro il fascismo. Dopo alcuni mesi passati in Brasile gli si riaprirono però le porte dell’Inghilterra, a Bristol, dove Blackett era stato indirizzato da Blackett.
Cecil Frank Powell aveva lavorato al Cavendish Laboratory di Cambridge in un periodo successivo a Occhialini e a Bristol presso il Wills Laboratory; nelle sue ricerche aveva cominciato a utilizzare una nuova tecnica di cattura delle particelle ionizzate mediante le emulsioni fotografiche sui comportamenti dei gas. Secondo quanto afferma Occhialini nel suo scritto autobiografico, Powell soffriva di essere stato marginalizzato quanto lui stesso ed era perciò assillato più dalla finalità che dalla curiosità: “Così Occhialini e Powell, ambedue esclusi dallo sforzo bellico, l’uno espatriato e l’altro frustrato da un mancato riconoscimento professionale, si diedero al lavoro, stabilendo un legame stretto e affettuoso” (Scienziati e Tecnologi contemporanei, EST Mondadori, 1975, Milano).
Occhialini portò notevolissimi miglioramenti alla tecnologia fotografica, ma raramente poteva rivolgere le sue lastre verso il cielo. Nonostante l’intenzione di rimanere solo qualche settimana per apprendere la tecnica, nel 1946, a guerra finita, era ancora lì. Solo allora poté valersi di un pacchetto di lastre per esporle sul Pic du Midi nei Pirenei e solo allora Powell si convinse dell’utilità di rivolgersi a questo ramo di ricerca che avrebbe portato alla dimostrazione del decadimento del mesone π. Esso era già stato teorizzato da Yukawa nel 1935 e nel 1936 era stata individuata una particella che sembrava corrisponderle. La pubblicazione dei risultati delle ricerche del gruppo di Bristol diede conferma definitiva alla teoria sullo scambio di particelle interne al nucleo dell’atomo.


VII. Palloni
Sul finire degli anni quaranta Occhialini si sforzò di allargare ed estendere il terreno di collaborazione per la ricerca dei raggi cosmici. Bruxelles, Genova, dove era stato chiamato, e poi Milano, dove rimase fino alla fine del suo insegnamento, costituivano i terreni in cui insediare nuove scuole e nuove attività di ricerca. Le chiavi per approfondire gli studi portavano in due direzioni: lo spessore delle emulsioni fotografiche, con tutti i problemi di sviluppo e fissaggio che comportavano, e l’altitudine dell’esposizione, per la quale l’escursionismo alpino non poteva più bastare.
Passati i quarant’anni, inoltre, Beppo scopriva di non essere più semplicemente un “ricercatore”, ma di essere guardato come “maestro” da nuove generazioni che si avviavano a lavorare sulle sue orme.
L’arrivo a Milano nel 1952 fu fertile da questo punto di vista e gli diede modo di dispiegare qualità insospettate sul piano organizzativo e sul piano della costruzione di durature relazioni nazionali e internazionali. Se fino all’inizio di agosto del 1945 la ricerca nucleare era stata ritenuta – salvo che per una piccola schiera di addetti – “solo” ricerca di base, il dopoguerra delineava ormai possibilità di impiego pratico, per fortuna non solo militare, delle nuove conoscenze. In tal modo la ricerca nucleare diventava strategica e quindi capace di attrarre finanziamenti.
Giovanni Polvani, allora direttore dell’Istituto di Fisica dell’Università di Milano e poi rettore dell’università stessa, certamente contò sulla presenza e sulle capacità di Occhialini per lanciare l’Istituto sul piano nazionale e internazionale.


VIII. Oltre l’atmosfera
La ricerca sulla natura della materia, che aveva cominciato a bipartirsi da prima della guerra, prendeva sempre di più strade distinte. Da un lato, nascevano nuove macchine e progetti per la ricerca nucleare, dall’altro, per liberarsi sempre più dal filtro atmosferico, dopo il lancio dello Sputnik si profilavano la necessità e la possibilità di catturare particelle cosmiche mediante satelliti artificiali.
Questo spinse Occhialini verso la gestione della politica della ricerca che rubava tempo all’attività di laboratorio. Di fatto, già dalla fine degli anni cinquanta, non volle più firmare articoli scientifici perché vi aveva contribuito solo con una funzione di orientamento.
La svolta netta fu data dal primo satellite interamente dedicato ai raggi X, Uhuru, lanciato nel 1970 con il contributo di Bruno Rossi, col quale si eseguì una prima mappatura delle sorgenti X dello spazio.
Per quanto riguarda la storia scientifica italiana ed europea, uno tra i più grandi successi è stato il BeppoSAX (Satellite per Astronomia X, così chiamato proprio in onore di Giuseppe Occhialini), nato dalla collaborazione tra l’Agenzia Spaziale Italiana e l’agenzia olandese per i programmi aerospaziali (NIVR).
Lanciato il 30 aprile del 1996, BeppoSAX era programmato per rimanere in funzione fino al 1998. è invece rimasto operativo per ben sette anni, fino a quando il 29 aprile del 2003 è stato fatto cadere nell’Oceano Pacifico. Più ancora della durata, è stata la ricaduta scientifica della missione a essere eccezionale. Già nel 2002, quando la missione volgeva al termine, erano oltre 1500 le pubblicazioni scientifiche basate su dati forniti da BeppoSAX.
Lo scopo fondamentale del viaggio di BeppoSAX era studiare le emissioni cosmiche di raggi X, attività impossibile da Terra a causa della schermatura dell’atmosfera. In particolare, voleva contribuire allo studio di quei fenomeni cosmici che emettono radiazioni contemporaneamente su un’ampia gamma di livelli energetici, per tentare di comprendere i relativi meccanismi astrofisici.
La grande competenza dimostrata in questo campo dalla comunità scientifica e tecnologica italiana (proseguita con la messa in orbita del satellite per astronomia gamma AGILE) ha garantito all’Italia un ruolo di primo piano anche nella missione SWIFT, con cui la NASA spera di risolvere definitivamente il mistero dei gamma-ray burst.

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