Elettricità che cura: tra positivismo e Belle Époque.

Sezioni della mostra

I. Una nuova elettricità per guarire: il faradismo
A metà del XIX secolo l’elettricità era trasportabile in batterie che potevano tenere accesa una lampada ad arco per ore, i tecnici avevano distribuito questo ‘fluido’ lungo una rete telegrafica di centinaia di chilometri, inventori dalle formazioni più disparate l’avevano piegata entro rocchetti, interruttori, ricevitori, cavi, accumulatori che venivano brevettati e venduti, mentre fisici, divulgatori, ciarlatani ed esperti avevano diffuso l’elettricità dai vertici della ricerca sperimentale fino ai banchi per gli spettacoli di elettrizzazione installati nei mercati di piazza.
Questa versatilità tecnica dell’elettricità e la vasta gamma di applicazioni cui si prestava è all’origine del successo ottenuto anche in campo medico. Sebbene l’idea che elettricità potesse guarire non fosse nuova, le ricerche condotte negli anni Venti e Trenta da Hans Christian Øersted e Michael Faraday rivoluzionarono questo campo: la scoperta dell’elettromagnetismo mise a disposizione dei medici l’elettricità faradica (definita anche elettricità indotta o interrotta), una nuova sorta di elettricità che si differenziava sia da quella statica che da quella continua. Inoltre, ciò che rese questa nuova ‘corrente’ di particolare utilità per il medico fu la messa a punto di un nuovo apparecchio elettromagnetico: il rocchetto d’induzione. Questa macchina si componeva di un filo avvolto intorno a un nucleo di ferro dolce che, se alimentato da una debole corrente continuamente interrotta e ripristinata, era in grado di generare un alto voltaggio in un avvolgimento di filo secondario. Era questa il nuovo strumento a disposizione dell’‘elettrojatra’: tutte le macchine presentate in questa sezione si compongono di un piccolo rocchetto (o bobina) e furono protagoniste assolute della seconda metà dell’XIX secolo.
Dalla loro invenzione in poi si discusse a lungo se la corrente faradica fosse più o meno affine al ruolo che giocava l’elettricità nella fisiologia umana e, di conseguenza, più o meno appropriata per la cura dell’una o dell’altra malattia. Nel frattempo i dipartimenti di elettroterapia si andarono moltiplicando negli ospedali e nelle cliniche universitarie, mentre ignari pazienti si sottoponevano a trattamenti che apparivano come l’ultima frontiera della medicina.


II. L’elettroterapia “prêt-à-porter”, fuori dalle cliniche e a domicilio
L’interesse dei medici nei confronti dei poteri curativi dell’elettricità faradica (o indotta) ebbe come conseguenza immediata un aumento delle richieste di apparecchi efficienti, dalle dimensioni contenute, che al contempo necessitassero di poca manutenzione e fossero facilmente trasportabili. Erano queste le richieste di ‘elettrojatri’ che praticavano l’elettroterapia non solo nelle cliniche, ma anche a domicilio, ed erano queste aspettative che in breve avevano contagiato i costruttori di strumenti accendendo la competizione e innescando un processo di miniaturizzazione delle macchine elettromedicali.
Rendere la macchina faradica semplice e manutentibile significava anzitutto ridurre al minimo le dimensioni della bobina d’induzione, ma soprattutto limitare il più possibile il disagio di dover portare con sé grosse pile che richiedevano elaborati processi di preparazione prima di poter essere utilizzate per l’alimentazione. Adolphe Gaiffe, costruttore di strumenti parigino, all’inizio degli anni Sessanta del XIX secolo sbaragliò la concorrenza e si conquistò una buona fetta di mercato mettendo a punto un apparecchio elettromedicale il cui peso non superava i 600 grammi: in una scatola portatile di 17 centimetri di lunghezza erano contenute la bobina, i morsetti, gli eccitatori per le applicazioni e due o tre pile che venivano attivate semplicemente immergendole in una soluzione di bisolfato di mercurio, anche questo incluso nella cassa. Una volta terminato il trattamento del paziente, al medico non restava che gettare via la soluzione e riporre le pile. Questa macchina, imitata, migliorata, ma riprodotta in esemplari sempre sostanzialmente riconducibili alla fattura originaria, circolò e venne utilizzata fino alla fine degli anni ’20 del ‘900.
La competizione tra i costruttori di strumenti e quella tra i medici per procurarsi nuovi pazienti si alimentavano dunque reciprocamente e non sortiva i suoi effetti solamente sulla struttura delle istituzioni ospedaliere e sulla concezione del corpo malato. Combinando le macchine conservate nelle collezioni studiate con i documenti d’archivio è possibile rileggere la storia dell’elettroterapia anche come una storia di innovazione tecnica e concorrenza di mercato. È ciò che è stato fatto in questa sezione della mostra nella quale viene presentata, oltre all’apparecchio di Gaiffe, la macchina magneto-elettrica di Joseph Gray. Messa a punto nel 1850 e premiata all’Esposiozione Universale di Londra del 1851, questo apparecchio aveva eliminato del tutto l’alimentazione a pila tipica delle macchine elettro-magnetiche: la corrente era prodotta attraverso la rotazione (applicata manualmente) di un’‘armatura’ in corrispondenza ai poli di una calamita permanente. Il deposito, da parte del costruttore, del brevetto d’invenzione e dei brevetti per i miglioramenti tecnici successivamente apportati, testimoniano il vasto successo di questa macchina e la spinta propulsiva che il mercato imprimeva all’innovazione tecnica in campo medico.


III. Il revival di un’elettricità: il galvanismo
Gli apparecchi elettro-magnetici alimentati a pile e a quelli magneto-elettrici mossi meccanicamente che sono stati descritti nelle sezioni precedenti avevano rappresentato la punta di diamante del faradismo, una nuova scienza dell’applicazione dell’elettricità ai corpi che si basava sulla convinzione che le correnti faradiche (o indotte, o interrotte) fossero le più affini alla fisiologia umana e, di conseguenza, le appropriate per il trattamento del paziente. Tale convinzione non era il frutto di una mera prassi terapica, ma l’esito sperimentale di ricerche volte a definire il funzionamento del sistema nervo-muscolare e gli effetti che sortiva su di esso un determinato tipo di corrente.
Intorno alla metà del XIX secolo, quando l’approccio allo studio della fisiologia venne rimodellato, soprattutto in seguito alle ricerche condotte a Berlino da Du Bois-Reymond e a Parigi da Claude Bernard, anche il dibattito sull’uso dell’elettricità in campo medico tornò ad aprirsi. Molti, trascinati da figure carismatiche come quella del tedesco Robert Remak, rilanciarono in questo periodo l’utilità dell’impiego in campo elettroterapico anche delle correnti galvaniche (o continue), in opposizione all’uso ‘spropositato e ingiustificato’ che veniva fatto delle correnti faradiche (o interrotte).
Qual era la scelta più appropriata e da che cosa dipendeva? Anzitutto prendevano posizioni diverse coloro che sposavano la teoria di Du Bois-Reymond, secondo cui alla base della trasmissione elettrica nel corpo umano vi era un sistema di molecole elettriche bipolari, e coloro che come Matteucci contrastavano questa posizione e rimanevano fedeli al concetto di fluido elettrico. In gioco vi era inoltre il ruolo stesso dell’elettricità nel corpo: non era ancora chiaro, ad esempio, se l’eccitazione muscolare fosse l’effetto di quella nervosa o se nervo e muscolo fossero entrambi eccitabili elettricamente e indipendentemente l’uno dall’altro. All’interpretazione della struttura fisiologica, inoltre, si accompagnava il problema della diversa conformazione degli organi sui quali il medico elettricista intendeva agire. Nel 1859 Julius Althaus, tra i più importanti medici elettricisti inglesi, scriveva che la scelta del tipo di corrente da applicare, il dosaggio, l’intensità e la scelta dell’apparecchio più adatto richiedevano una molte tale di competenze in campo terapeutico, fisico e fisiologico, che ancora troppo pochi possedevano.
È in questo intricato contesto che l’elettricità galvanica riconquista dignità e torna ad essere ampiamente impiegata. Nel 1873 Plinio Schivardi, la maggiore autorità italiana nel campo della medicina elettrica, affermava che negli ultimi 10 anni “l’elettricità galvanica era risorta” ed era questa una delle ragioni per cui si poteva asserire che i rapporti tra elettricità e medicina erano entrati “in una nuova fase”. Le macchine a corrente continua che vengono presentate in questa sezione giocavano ora un ruolo di primo piano e la corrente continua diventava un agente di cura primario in virtù di effetti che Remak aveva definito: “catalitici [dilatazione dei vasi sanguigni], antiparalitici e antispasmodici”.


IV. ‘Energo’: una macchina per la cura di ogni male
In questa sezione della mostra viene presentato l’apparecchio galvanico a corrente continua ‘Energo’, venduto dalla ‘Società Energo’ di Torino a partire dagli anni ’20 del XX secolo, ma prodotto nello stesso periodo anche dalla ditta tedesca G. Wohlmuth & Co. L’apparecchio, che pesa circa 16 Kg. e misura 36 cm. di lunghezza era una macchina pensata per essere acquistata e usata a domicilio senza l’ausilio del medico. Alimentata a batterie a secco che non necessitavano di manutenzione, la macchina era attivata attraverso un semplice quadro di controllo dotato di un invertitore, attraverso cui era possibile cambiare la “direzione” della corrente senza scollegare gli elettrodi, e di un reostato per la regolazione dell’intensità. L’“indicatore di corrente”, o milliamperometro, consentiva di tenere sotto controllo la corrente applicata e dosarla a seconda delle applicazioni. Gli elettrodi (o applicatori, o eccitatori) venivano acquistati separatamente a seconda della patologia da cui era affetto il paziente.
Ciò che ha reso particolarmente interessante questa macchina non sono la fattura o dettagli tecnici che potessero differenziarla da altre macchine in commercio nello stesso periodo, bensì il fortunato reperimento della Guida pratica per la cura Energo. Questo manuale di funzionamento dell’apparecchio aveva l’obiettivo di spiegare al pubblico non specialista dei potenziali pazienti quali fossero gli effetti benefici dell’elettricità, quale fosse lo stato attuale della ricerca scientifica in questo campo e perché la macchina rappresentasse un’imperdibile occasione di portarsi a casa una sorta di vaso di Pandora al rovescio: uno strumento per la cura di ogni male. Ad impreziosire il testo, che in circa 350 pagine spiega come l’elettricità potesse essere applicata alla cura di 173 diverse patologie, è il catalogo in cui le principali tecniche di cura erano presentate attraverso immagini esplicative.


V. Meravigliose cure
Nella storia dell’elettricità ricerca professionale e ciarlataneria sono spesso confuse e non viene ancora dedicata sufficiente attenzione al rapporto di reciprocità che le alimentava e a quanto sia difficile, in determinati periodi, distinguere l’una dall’altra e circoscrivere i contributi che entrambe fornivano alla concezione e alla continua ridefinizione del concetto di corpo e della natura stessa dell’elettricità.
Questa sezione della mostra ha come obiettivo l’esposizione di alcuni oggetti ambigui, tracce di teorie decadute o segni di una evidente volontà di ingannare per vendere. Da qualunque prospettiva si tenti di osservarli non sarà difficile riconoscere che il loro successo e la vasta circolazione di cui godettero si radicavano in una solida cultura dell’elettricità che nutriva di aspettative non solo fisici e fisiologi, ma anche e soprattutto la società che li autorizzava ad indagare questo ramo della conoscenza.

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